Il valore dello sconforto e della tristezza

La prenderò alla larga (ma non troppo).

La settimana scorsa, nella lunga coda per entrare al supermercato, la signora che mi precedeva, commentando la situazione in cui ci troviamo, mi ha detto: “Il Coronavirus è un’occasione per capire le cose importanti, ad esempio l’amore per i figli”.

Penso che non debba essere molto solido, questo amore, se ha bisogno del Coronavirus per emergere.

Penso anche che la signora si trovi comunque in ottima compagnia e in sintonia con molti dei commenti del genere “questa è una grande opportunità per…” (scegliete un concetto a piacere tra “riscoprire la solidarietà”, “sentirsi orgogliosi di essere italiani”, “valorizzare lo smart working”, ecc…).

Non sono contrario all’idea che ogni ostacolo che incontriamo possa trasformarsi in un’occasione di apprendimento e di miglioramento, ma trovo che ci sia troppa frenesia nel liquidare i sentimenti negativi.

Stiamo reagendo in modo consumistico e superficiale da un lato nell’esaltare la resilienza e l’ottimismo, dall’altro nell’emarginare le emozioni cupe che tutti proviamo, allo stesso modo in cui, nella vita “fuori dal virus”, inseguiamo un archetipo estetico e giovanilistico, rifiutando le imperfezioni e l’invecchiamento.

Essere tristi, avere sentimenti di sconforto, sono reazioni sane dal punto di vista sia psicologico, sia razionale.

Immaginate di perdere una persona cara e che una settimana dopo un amico, vedendovi triste, vi dica che adesso è tempo di ricominciare, di lasciarsi alle spalle il dolore, che la vita continua. Certo, dopo una settimana, la frase sembrerebbe inopportuna. Quindi avrebbe senso dirla un mese dopo? Sei mesi dopo? Un anno? Due? In realtà credo che non abbia senso dirla mai.

Il dolore aiuta a elaborare la perdita, a trovare il nostro modo di convivere con essa, a tenerla dentro di noi per farla diventare parte della nostra, a volte tormentata ma comunque unica, storia. Allo stesso modo, tutti noi abbiamo avuto e abbiamo bisogno di tempo per trovare un diverso equilibrio in questa nuova circostanza di “vita segregata”, affrontando anche la paura, la noia, l’irritazione.

Parliamo anche degli aspetti razionali. Un sano pessimismo mi può aiutare nel valutare con attenzione gli scenari peggiori che si potrebbero prospettare, e approntare per tempo piani di emergenza per contenere i rischi. Se dovessimo rimanere chiusi in casa altri quattro mesi? Se le aziende clienti riducessero del 50% il lavoro che normalmente mi assegnavano? Gran parte del mio lavoro consiste nel tenere corsi di formazione in aula: se queste attività scomparissero del tutto per i prossimi tre anni e investissero solo sull’ e-learning?

Insomma, è giusto essere abbattuti, insoddisfatti e arrabbiati, per ciò che sta succedendo a chi sta soffrendo di più (e molto) e per ciò che sta succedendo a noi. Non facciamo finta che tutto andrà sicuramente bene: tutti lo vogliamo, ma non sarà facile farlo accadere. Altrimenti rischiamo di assumere l’atteggiamento su cui ironizza il testo di questa vecchia canzone:

https://www.youtube.com/watch?v=CeMoyDLZ-zI

P.S. : perché non pensiate a me come a un corvaccio incattivito, tenete conto che settimana scorsa ero l’unico del mio palazzo a cantare a squarciagola “Tanto pè cantà” fuori dal balcone, all’ora del flash mob.