Vale più l'esperienza o la passione?

LA SELEZIONE DEL PERSONALE TRA CIRCOLI VIZIOSI E VIRTUOSI

In un cliccatissimo e commentatissimo post di Linkedin di settimana scorsa si è discusso sul fatto che la selezione del personale rischi di non essere efficace nell’individuare le persone “migliori”, perché effettua il primo screening in ottica conservativa: solo chi ha fatto uno specifico percorso di studi è candidabile per la posizione X, solo chi ha già esperienza in un certo lavoro può candidarsi per un ruolo Y.

Si escluderebbero quindi in partenza tutte le persone che, pur avendo intrapreso un determinato percorso di studi, si sono attivate per diversificare il proprio patrimonio di conoscenze, nonché quelle che da anni svolgono un ruolo ma si sentono pronte per affrontare sfide in un nuovo ambito.

All’inizio il tema mi sembrava scontato e sono intervenuto unendomi alla schiera degli “ortodossi”, commentando che, insomma, è naturale cercare persone che abbiano la maggior competenza possibile su ciò di cui andranno a occuparsi (e mi sono beccato pure un insulto, ma questo è tema per un altro blog).

Dall’altro lato dell’ipotetica barricata, ben nutrita, si trovavano invece i “possibilisti”, sia professionisti del settore che auspicano un approccio che tenga in maggior conto gli aspetti motivazionali, sia gli “arrabbiati”, persone che ritengono di essere ingiustamente escluse da opportunità di lavoro, e che “sono certe” di nutrire una passione che colmerebbe molto rapidamente l’iniziale divario di conoscenze e competenze.

Mi sono nel frattempo imbattuto in un bel libro di Simon Sinek, “Partire dal perché”, che, pur non trattando direttamente di recruiting, mi ha offerto una terza chiave di lettura del problema.

Basare la selezione del personale solo sui fattori di competenza / esperienza rischia in effetti di “impoverire il DNA della specie”, per usare una metafora naturalistica. Non si creano “contaminazioni” virtuose tra diversi saperi e professioni, si generano delle cerchie professionali chiuse e “di casta”.

Peraltro fondare la scelta di una persona sulla sua “passione” e sull’apprendimento “fai da te” da questa indotto sarebbe troppo rischioso e arbitrario, e il suo stipendio non lo pagherà il selezionatore…

Esiste un’altra prospettiva, forse più predittiva rispetto a quella della passione: è quella dei valori: è interessante capire quale obiettivo una persona abbia in mente nel momento in cui si immagina di essere bravo ed efficace in un lavoro, che tipo di idea si è fatto del valore che avrà il suo contributo e di chi ne saranno i suoi beneficiari.

Attenzione, è qualcosa di diverso dalle classiche domande del tipo “In che modo lei potrà essere utile alla nostra Azienda” o (peggio) “Perché dovremmo scegliere lei e non un altro”.

Dall’altro lato, le considerazioni sulla passione sono invece del tutto personalistiche e, se volete, più egoistiche, perché si interrogano su “ciò che piace” e non sul “ciò che vale”.

Per esempio (non casuale, visto che è di questo che si parlava nel post), quale valore orienterà il comportamento professionale di una persona che si candida per lavorare nel campo delle Risorse Umane? Il piacere di capire a fondo i bisogni del tuo interlocutore o il valore di dare a questi bisogni una risposta qualificata e realistica? Il piacere di gestire i percorsi di carriera altrui o il valore di creare un’organizzazione di persone performanti? Il piacere di gestire le ricompense o l’equità nel distribuirle a chi merita? Il piacere narcisista di essere in un’aula a dispensare saggezza o il valore di accrescere realmente le competenze degli altri?

Concludendo, penso che introdurre nei colloqui di selezione questioni attinenti l’etica professionale, reale per chi la pratica e immaginata per chi vuole praticarla, possa offrirci spunti davvero interessanti e aprire in modo più lucido le posizioni ai candidati “alternativi”.